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L’esigenza di omogeneità per l’Osservatorio nazionale in avvio presso il Mipaaf e la nuova strategia del Crea per innescare esternalità positive lungo le filiere

Vantaggi che rischiano di trasformarsi in autogol. L’Italia vanta il primato mondiale della biodiversità agricola. L’Onu riconosce infatti al nostro Paese il merito di aver salvato dall’estinzione migliaia di specie animali e vegetali. Un melting pot che riguarda anche l’uomo, visto che gli italiani risultano la popolazione più geneticamente eterogenea al mondo. Merito della capacità attrattiva del Belpaese e dell’abilità di generazioni di produttori agricoli che hanno trovato conveniente sviluppare e allevare razze animali e varietà vegetali adattate alle diverse aree vocate della penisola.

Ora però i protocolli Onu di Rio e soprattutto di Nagoya rischiano di trasformare questa ricchezza in un onere pesantissimo da rispettare. Prescrivendo la necessità di censire, studiare e tutelare questa biodiversità. «Per evitare – commenta Salvatore Parlato, economista e presidente del Crea, Consiglio per la ricerca in agricoltura del Mipaaf – che questo conto risulti salato, occorre che sia minima la distanza tra le entità che investono nella tutela della biodiversità e quelle che invece sono in grado di valorizzarla».

Una rete di conoscenze

La ricerca pubblica in Italia investe infatti moltissimo nello studio e nella salvaguardia della biodiversità. La dimostrazione arriva dai lavori del XII Convegno nazionale appena concluso presso l’Università di Teramo. L’impegno degli illustri ricercatori che hanno risposto all’appello di Michele Pisante, che ha presieduto il comitato scientifico, è stato notevole, mettendo in rete l’insieme di connessioni e di conoscenze su tutte le più recenti attività di recupero, caratterizzazione, conservazione delle specie e varietà in via d’estinzione o di erosione genetica.

Ma anche approfondendo la nuova sfida dell’analisi della variabilità genetica e dell’individuazione della miniera rappresentata dalle varianti geniche utili, uniche per l’adattamento al climate change e per la qualità dei prodotti, di cui sono ricche le varietà e razze locali. Risorse che assumono ulteriore importanza economica alla luce della rivoluzione prossima ventura rappresentata dall’evoluzione delle nuove tecnologie di ingegneria genetica.

La strategia del Crea

Il lavoro del Crea e delle Università è quindi ancora più strategico anche per preservare in futuro il libero utilizzo di questa biodiversità. «Siamo all’alba di una evoluzione tecnologica – riconosce Parlato nel corso della tavola rotonda moderata da Terra e Vita – sia sul fronte digitale che di quello della genetica, che può dare nuove chance per valorizzare queste risorse. Per questo il Crea ha inaugurato una nuova stagione di collaborazioni con il settore privato (l’accordo per il grano Senatore Cappelli è solo un primo esempio) affinché gli sforzi della Ricerca pubblica possano innescare esternalità positive per tutte le filiere».

«Le risorse a disposizione sono poche – afferma Emilio Gatto, al vertice della direzione generale dello Sviluppo rurale del Mipaaf, che ha la responsabilità dell’attuazione del Piano nazionale sulla biodiversità di interesse agrario -, l’importante è investirle bene, senza duplicazioni sui vari fronti locali». Il ministero sta infatti predisponendo l’Osservatorio nazionale della biodiversità e raccomanda unità di metodo e di intenti per produrre database omogenei.

«La frammentazione – riconosce Luigi Trotta, della Regione Puglia – può produrre duplicazione, ma alcune Regioni hanno già prodotto molto su questo fronte, uno sforzo che va riconosciuto».

«La biodiversità – testimonia Luca Tomasella di Industrie Rolli alimentari, società specialiazzata sul fronte dei vegetali surgelati – è già diventata un’opportunità sul fronte della valorizzazione commerciale, tanto che tra i prodotti a più intensa crescita nella nostra gamma ci sono varietà un tempo a consumo solo locale come i peperoni friggitelli o i friarelli».

«Occorre però – obietta Franco Brazzabeni di Assosementi – che sia fatta chiarezza sul fronte normativo». Da una parte infatti il protocollo di Nagoya ha trascurato specie agrarie importanti come la soia. «Dall’altra – conclude – ha introdotto pesanti vincoli come l’obbligo di produrre dossier per ogni parentale e ogni Paese d’origine». Per capire quanto può pesare questo vincolo basti pensare al caso limite di una varietà di frumento ottenuta dal Cymmit da 170 incroci di varietà registrate in 26 diversi paesi.

Leggi l’articolo di Terra e Vita n. 20/2018 completo di box di approfondimento

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