Biodiversity Barcamp di Lodi: un momento del brainstorming del tavolo numero uno

Può sostenere l’attività produttiva agricola, anche in zootecnia, oltre ad avere un elevato valore ambientale e sociale. Se ne discuterà a fondo nel Congresso nazionale in programma all’Università di Teramo dal 13 al 15 giugno.

Dal 13 al 15 giugno prossimi si svolgerà presso l’Università di Teramo il XII Congresso nazionale di Biodiversità. Le tre giornate copriranno un ampio ventaglio di aspetti della diversità biologica degli ecosistemi costituita dalle infinite interazioni tra specie microbiche, vegetali ed animali, incluso l’uomo. Il Congresso è preceduto e preparato da cinque incontri tematici già tenuti a Palermo, Pontecagnano, Perugia, Lodi e Roma.

Il Consiglio per la Ricerca in agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria (Crea) esprime il presidente del comitato scientifico del congresso nella persona del proprio consigliere di amministrazione prof. Michele Pisante. Personalmente partecipo all’organizzazione dei lavori della sessione “Biodiversità animale” e, assieme ai colleghi Andrea Galli e Bianca Moioli, ho seguito l’incontro di avvicinamento sulla conservazione delle risorse genetiche animali e dei sistemi acquatici tenuto a Lodi il 15 maggio scorso con la partecipazione di ricercatori universitari, allevatori e giornalisti.

Il grande aumento della produttività zootecnica degli ultimi decenni ha indotto una generale standardizzazione delle tecniche di allevamento e delle razze impiegate, con la marginalizzazione delle razze locali.

Tuttavia, ad iniziare dalla Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD; Rio de Janeiro 1992), si è manifestato un crescente consenso verso la salvaguardia delle razze locali, sia come riserva di geni “funzionali” che potrebbero tornare utili al mutare delle circostanze (si pensi ai cambiamenti climatici), sia come valore culturale ed identitario (soprattutto nei Paesi sviluppati), sia ancora per lo sfruttamento ottimale di ambienti particolari (soprattutto nei Paesi in via di sviluppo).

La difesa della biodiversità degli animali domestici si sostanzia principalmente nella conservazione della molteplicità delle razze tradizionali, ma non si tratta di una questione semplice. Anzitutto non esiste una definizione scientifica di razza: il fatto che le razze di una medesima specie siano tra loro feconde, rende labili i confini tra una razza e l’altra, e per la stessa Fao, una possibile definizione è: una razza è una popolazione animale che un numero sufficiente di persone considera essere una razza. Per superare questa incertezza, è necessario registrare le genealogie degli animali e fissare gli standard fenotipici di razza. Paradossalmente si potrebbe sostenere che sono i programmi genetici (i libri genealogici nella nuova terminologia comunitaria) a fare le razze.

Negli ultimi vent’anni si è assistito ad un tremendo sviluppo delle tecnologie genomiche per la caratterizzazione delle razze. Se si riesce ad identificare un gene “proprietario”, cioè un gene presente in tutti gli animali di una medesima razza e assente nelle altre razze (o almeno in razze allevate in aree geografiche o sistemi economici contigui) è effettivamente possibile attribuire in modo semplice un animale a quella razza. Esempi sono il gene della cinghiatura nella razza suina Cinta Senese, il colore rosso del mantello della razza bovina Reggiana, la mutazione della miostatina nei bovini di razza Piemontese “della coscia”.

Ma non sempre si è così fortunati, e spesso si deve ricorrere a metodi che, partendo da dati genomici, assegnano statisticamente gli individui a “gruppi” riconducibili alle popolazioni che si vogliono differenziare. Accade però che, quando si devono caratterizzare razze costituite da individui molto imparentati (come spesso succede per le razze locali) è difficile capire se il risultato dell’analisi dipenda dal fatto che le popolazioni siano effettivamente diverse oppure derivi dalle differenze tra gruppi familiari entro popolazione.

La genomica consente comunque di quantificare la “distanza genetica” tra le razze, ed è quindi possibile individuare le razze più distanti (diverse) dalle altre e quindi più meritevoli di conservazione. Questo è un settore in continua evoluzione e sul quale anche i genetisti convenuto a Lodi hanno lungamente dibattuto.

L’aspetto fisico degli animali è ancora il modo più semplice e universalmente compreso per identificare una razza è ancora l’aspetto: il tipo, le dimensioni, il colore del mantello o delle piume, la forma delle corna, sono tutti elementi che compongono i “caratteri di razza”. Spesso questi elementi, assieme al nome locale della razza, fanno parte della “cultura materiale” e diventano parte dell’identità dei luoghi. Accade quindi che le considerazioni identitarie diventino prevalenti, e ai genetisti viene chiesto il supporto scientifico a domande di riconoscimento non dettate solo dalla valutazione della distanza genetica di quella particolare popolazione da razze già riconosciute.

Questo approccio “culturale” al concetto di razza è particolarmente evidente nelle attività di “ricostituzione” di razze già estinte. Si tratta della costituzione di nuove razze che ripropongano fenotipi simili a quello di una razza estinta, così come rinvenibile da diverse fonti (libri, riviste, quadri, musei, ecc.).

Queste attività, che possono anche avere un interesse zootecnico laddove mirino ad utilizzare ambienti specifici, non hanno valore dal punto di vista conservazionistico, trattandosi di assemblaggi di geni già presenti nei tipi genetici utilizzati per la “ricostituzione”. In un’ottica di trasparenza, sarebbe importante attribuire a questi nuovi tipi genetici nomi distinguibili da quello della razza estinta: un po’ come nel restauro la tecnica del tratteggio restituisce la “leggibilità” di un quadro pur consentendo, a chi gli si avvicini, di distinguere le parti “ricostruite”.

I fondi europei prevedono la concessione di aiuti, gestiti soprattutto dalla Regioni, per la conservazione delle razze autoctone a limitata diffusione, ma in un’ottica di lungo periodo è importante riuscire a trovare loro una dimensione produttiva: può trattarsi di hobby, di nicchie produttive (agriturismo) o anche di nuovi modelli di produzione a basso input (agricoltura biologica).

Leggi l’articolo di Informatore Zootecnico n. 10/2018 completo di box e approfondimenti.

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